lunedì 25 marzo 2013

Nell'anniversario della morte di Oscar Romero


Prima di ricominciare a parlare di corsa, concludo la (prima?) trilogia sul nuovo papa proponendo un articolo che ho scritto per ricordare il vescovo di Salvador Oscar Romero. Non so perché non sia stato pubblicato, ma per fortuna ho questo spazio libero per raccontare i miei pensieri. Ringrazio tutti quelli che partecipano al blog usando altri mezzi di dialogo, come facebook, twitter, email e parole.
 
 
Il 24 marzo 1980 fu assassinato il vescovo di San Salvador, Oscar Romero. Mentre celebrava la messa, un cecchino gli sparò un solo colpo, mortale. Da quel giorno il sentimento di molti cristiani ha contribuito ad avverare le parole profetiche che il vescovo aveva pronunciato qualche tempo prima: “Un vescovo morirà, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non perirà mai”. Di Oscar Romero si è parlato in questi giorni di inizio pontificato, forzando un improbabile paragone con Jorge Mario Bergoglio. In particolare, una bella intervista con uno dei più illustri esponenti della teologia della liberazione, Jon Sobrino, è stata malamente intitolata: “Bergoglio non fu un Romero, si allontanò dai poveri ai tempi del genocidio argentino”. Al contrario di quel che ci si aspetterebbe da un’intitolazione simile, Sobrino ha parole di fiducia e speranza per il nuovo pontificato. Lo stesso si può dire per uno dei padri della teologia della liberazione, Leonardo Boff, che commenta con soddisfazione l’elezione di Francesco e lo accomuna con Romero, sottolineando come non sia tanto un’etichetta (in questo caso, appunto, “teologia della liberazione”) quanto piuttosto l’atteggiamento di fronte ai poveri,  agli oppressi, agli abitanti delle favelas a definire l’impronta di un episcopato e di un pontificato.

Chi era Oscar Romero e perché il suo ricordo è così importante nella cristianità? Alle origini della sua vita episcopale Romero rappresentava la parte conservatrice della chiesa di El Salvador, simpatico ai politici e malvisto dai più progressisti tra i confratelli. Il continuo contatto con i poveri e la successione di violenze provocate dalla sanguinosa alleanza tra governo oligarchico e forze armate fecero maturare una profonda conversione in lui, già compiuta al momento della nomina ad arcivescovo di San Salvador nel febbraio 1977. L’assassinio dell’amico Rutilio Grande, sacerdote gesuita, indusse Romero ad alzare la voce, denunciando le violenze e prendendo con estrema decisione la parte degli oppressi. Le sue omelie trasmesse alla radio acquisirono sempre più importanza e resero la sua opinione rilevante nella riflessione politica e pastorale di tutta l’America Latina, con profonda eco nel resto del mondo. Non riuscì a conquistare la fiducia di Paolo VI, né quella di Giovanni Paolo II, sospettato di un’adesione a ideologie di stampo marxista rivelatasi infondata sia allo sguardo dei contemporanei, sia all’esame degli studi successivi alla sua morte. Romero denunciava la violenza, chiedeva il rispetto degli operai, dei contadini, dei suoi sacerdoti mentre El Salvador tremava sotto i colpi della guerra civile. Non aveva paura di alzare la voce. Il 23 marzo 1980 inviò un messaggio ai connazionali militari nel quale risuonavano forti queste parole: “In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo sempre più rumorosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: basta con la repressione”. Il giorno dopo giaceva senza vita sul pavimento di una chiesa.
Romero è stato immediatamente proclamato santo dal suo popolo, molti sacerdoti americani lo riconoscono come “San Romero de América”. La Chiesa di Roma ne ha promosso la causa di beatificazione nel 1997, la spinta perché venga canonizzato è forte; le altre Chiese (anglicani, luterani, veterocattolici) lo commemorano come martire. Nell’intervista ricordata in apertura, Jon Sobrino sostiene come non sia tanto importante che Bergoglio canonizzi Romero, anche se evidenzia la portata simbolica di un’eventuale scelta in questo senso, ma gli chiede piuttosto di riconoscere che i martiri dell’America Latina sono la testimonianza della resurrezione in un continente tormentato, sono “il meglio che abbiamo nella Chiesa latinoamericana”. Da nessuno è possibile esigere quella che per il cattolico è la vocazione al martirio. Non è stata richiesta ai primi missionari gesuiti inviati in America, che anzi ricevettero dai superiori l’invito a fuggire comportamenti troppo rischiosi per le loro stesse vite.  Non era certo pretesa da chi, come Romero e Bergoglio, ha vissuto parte del suo ministero in terribili contesti politici. Si possono però chiedere, come fa Sobrino, altre cose e molti sono in attesa di sapere cosa dirà o non dirà Francesco in occasione dell’anniversario della morte del vescovo di San Salvador.

Claudio Ferlan - Fondazione Bruno Kessler – Istituto Storico Italo-Germanico
 
L'articolo è stato scritto per essere pubblicato sabato 23 o domenica 24 marzo. Ora sappiamo che Francesco non ha detto. Peccato.


martedì 19 marzo 2013

Articolo - Con Francesco rinasce la speranza


Propongo a chi interessa il testo del mio articolo pubblicato ieri sul quotidiano L'Adige. Inizio ad usare il blog per raccontare anche il mio lavoro, oltre che le mie corse. 

L’Adige - lunedì 18 marzo 2013 (prima pagina, segue a p. 53)
Con Francesco rinasce la speranza
Quel silenzio che ha caratterizzato i secondi intercorsi tra il “Georgium Marium” e il “Franciscum” pronunciati dal cardinale protodiacono Tauran è denso di significato. Racconta lo stupore di una piazza ed è simbolo della sorpresa di un’intera comunità. Almeno tre novità fondamentali accompagnano quello stupore: primo gesuita, primo non europeo, primo Francesco. Difficile credere che il nome sia un richiamo al santo missionario per eccellenza, Francesco Saverio. Perché, a ben vedere, lui era “il Saverio”, colui che mise in imbarazzo un intero ordine, con i suoi segni di santità così superiori a quelli manifestati in vita dallo stesso fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola. Che lo spirito apostolico sia proprio di Bergoglio, però, è un dato emerso già nelle sue prime parole e nel riferimento alla necessità di evangelizzare innanzitutto Roma. 
Proprio al padre fondatore Ignazio, oltre che al poverello di Assisi, sembra potersi ricondurre la scelta del nome: il modello di vita cristiana richiamato dal Loyola al momento di dettare le linee di condotta ai primi confratelli fu proprio Francesco. Papa Bergoglio è testimone di una tradizione, di una delle diverse facce della Chiesa: ci sentiamo di poter supporre sia quella che più piace alla maggioranza dei fedeli. Il suo primo discorso, i primi segnali simbolici del suo pontificato richiamano alcune caratteristiche proprie del gesuita: sobrietà, acutezza teologica, spirito missionario e raffinata capacità comunicativa. Prima ancora, preghiera e raccoglimento, segno distintivo dell'ordine cui appartiene e che tanto affidamento mette in uno dei testi fondanti la cattolicità moderna: gli "Esercizi spirituali". I suoi primi comportamenti sono un chiaro omaggio, siamo certi non solo formale, all’insegnamento del santo di Assisi.
Ignazio non voleva incarichi di governo per i membri della Compagnia di Gesù. Rispose sempre con un “no” cortese ma fermo a Ferdinando di Asburgo che, nel pieno dello scisma luterano, ripetutamente gli scrisse chiedendo il suo consenso alla designazione di Claude Jay e Pietro Canisio quali vescovi il primo di Trieste e il secondo di Vienna. I tempi cambiano e di vescovi e cardinali gesuiti la storia ne ha poi conosciuti parecchi. Certo che nella storia personale di Francesco I, nella volontà di restare a Buenos Aires e di non occupare incarichi curiali a Roma risuonano cristalline le convinzioni di Ignazio. Buenos Aires, appunto: un papa che viene da lontano e che si crede possa portare nella Città eterna un nuovo modo di vivere la fede. La presenza dei gesuiti nell’America Latina è forte, lo è sempre stata. A partire dalla prima spedizione (1567) verso quello che allora era il Vicereame del Perù, passando attraverso le Riduzioni, la ripetuta resistenza al potere politico (e politico-religioso) e il contributo dato alla teologia della liberazione, una svolta epocale nella vita della Chiesa che attende ancora di essere riconosciuta come tale. Gli esordi della Compagnia di Gesù in quelle terre furono segnati dalla volontà di non compromettersi con le brutture di cui si resero colpevoli uomini d’arme ma anche di religione. Pur con qualche ombra, vi riuscirono, e l’apostolato dell’ordine di Bergoglio è a tutt’oggi riconosciuto per la sua capacità di andare incontro all’altro. Ogni generalizzazione porta in sé una quota di approssimazione, ciononostante non crediamo di andare troppo lontani dalla realtà delle cose e dei sentimenti. Francesco I sembra davvero incarnare questo spirito.
Cosa ci possiamo aspettare da lui? Difficile dire. Ma un’ipotesi forse si può formulare: la maggior parte dei credenti, ma anche quella dei non credenti, dalla sera del 13 marzo può guardare con rinnovato vigore e con fondata simpatia ad almeno una delle virtù teologali. La speranza.

Claudio Ferlan
Ricercatore FBK-Istituto Storico Italo-Germanico 

venerdì 15 marzo 2013