Dopo la felice parentesi casereccia, ritorno al solito tren-tren, che ballonzolando sui binari mi suggerisce di affidare all'amato blog disordinati pensieri, privo dell'ambizione di ordinarli.
La parentesi mi ha riattivato vari transistor assopiti: di Carso già ho scritto e ancora scriverò, ma c'è stato l'incontro con qualche amico e svariati parenti, arricchito dal centro d'attenzione permanente a cui abbiamo dato il nome di Mateja. Avrei naturalmente voluto moltiplicare gli incontri, ma se già prima non ero (eravamo, Chiara ed io) in grado di gestire i complicati tempi dei nostri rientri compressi, immaginiamo adesso che la nuova arrivata ci detta a tutto diritto i suoi ritmi. Ritmi che sono compatibili con la sola corsa a casaccio, ma questa è una storia diversa che continuerò a raccontare in seguito.
Proseguiamo così con l'annunciato disordine, lasciando da parte per una volta il correre.
Ho visto, fortunata coincidenza di momenti, la presentazione di quello che ho definito, compiaciuto della mia definizione, il libro che avrei sempre voluto leggere e che non era stato ancora scritto. Si tratta della storia del basket jugoslavo scritta dall'aurea penna di Sergio Tavčar, voce di Tele Capodistria. E questa lettura merita un post, che arriverà.
Incisi e relative danno conto del disordine, nel pieno rispetto del quale ancora scrivo senza indugio.
Ho ricalpestato in compagnia la curva nord dello stadio Friuli, teatro di anni plurimi di felice abbonamento, rendendomi conto che il calcio visto dal vivo ancora e sempre mi piace. E che se riabitassi dove abitavo, lo guarderei ancora assiduo. Non è il basket, ma è uno sport molto bello reso antipatico da tutto quel che si sa.
Ho risposto presente, ancora una volta con demenziale ostinazione, alla visione del mondiale di ciclismo alla tv, salvo poi scoprire che il doping impazza e strapazza l'antidoping. Ma è così difficile superare le male abitudini acquisite in età innocente? E questa volta era pure notturno... come se il sonno attuale fosse abbondante.
Ho condiviso con grande gioia e privilegio da padrino il battesimo di Gabriele, bimbo di amici veri, di quelli che ogni saggio ti dice – probabilmente anche a buona ragione – che si contano sulle dita di una mano.
Ho rivissuto la difficoltà oggettiva del lavoro di concentrazione in quella che un tempo si chiamava casa mia ed ora semplicemente casa dei miei, luogo di passaggio e frontiera, porte aperte a voce alta.
Ho rifrequentato per qualche ora il dipartimento di storia dell'università di Trieste, dove nulla pare cambiato, anche se lo sarà, e dove, al di là di ogni nostalgia, è quasi ovvio che non lavorerò quel mai che non si deve dire mai.
Ma quanto è bella Trieste, depositata tra Carso e Adriatico, strana e schizzata come nessuna? Lo so di essere mosca bianca, ma butto a mare i campanilismi e rivendico il diritto di rimanere tifoso dell'Udinese e desideroso di tornare un giorno a vivere a Trieste, frequentare le osmize, andare al mare in pausa pranzo, girare le palestre del basket giovanile con un occhio di riguardo alle inesauribili produzioni di talenti femminili di Ginnastica e Interclub. E allenandole pure.
Nostalgia. Sentimento del tutto nuovo e che mi dicono in molti essere da connettere alla paternità. Se è vero, probabile che passi. Dopo qualche giorno più di un mese, posso scrivere in tutta onestà che nelle mie valutazioni prenatali avevo ampiamente sottostimato le potenzialità d'aiuto di mamma che è pure tre volte nonna. Risultato. Matj e Chiara sono rimaste a farsi coccolare e viziare, io sono partito per il Near West a compiere i miei compiti. Appena li finisco, mi rimetto in binario e torno ad East per qualche giorno, qualche altra riattivazione di tranistor e spero pure qualche corsa. E mentre scrivo il percorso si compie e le prime montagne mi ricordano come ogni volta che Verona si allontana per lasciare a Trento il proprio spazio.
È stato molto piacevole scrivere questo post, spero che anche leggerlo dica qualcosa.