La vigilia della grande festa del 4 luglio (la celebreremo a Berkeley Marina) è una buona occasione per fare il punto sulla prima esperienza prolungata statunitense della pressoché settenne Mateja Ferlan: il Summer Camp sportivo (che altro) organizzato dalla University of California Berkeley.
Quando i suoi genitori, che poi saremmo Chiara ed io, sono stati alla riunione di presentazione, sono rimasti stupiti dal sistema di raccolta dei bambini al termine della giornata. Ci è stato detto infatti di non scendere dalla macchina (che noi non abbiamo, se non in casi rari che godono della generosità altrui): gli assistenti del Camp provvederanno a tutto. In effetti è così, allo scoccare delle 3:45 pm, ora deputata, una decina almeno di giovani si lancia di corsa vicino ai finestrini delle macchine in attesa, mentre altri giovani regolano il traffico. In perfetto ordine di coda, il genitore o chi ne fa le veci firma il registro e il bambino viene fatto sedere in macchina, cintura allacciata e si va. Consegna Drive-In, con un'organizzazione al limite della perfezione. Le macchine non devono neppure spegnere il motore, tutto si svolge con rapida pulizia.
Il programma del Camp prova una volta di più la precisione del sistema. Gli sport e le attività si succedono con tempi adeguatamente scanditi; basket, danza, scacchi, arte, calcio, nuoto, football e atletica leggera. Il tutto naturalmente con previsione di pause adeguate. Il Camper a fine giornata è tanto esausto quanto entusiasta. E Mateja ora sa come si lancia una palla da football, meraviglioso. La invidio.
Oggi 3 luglio, mentre stavo leggendo in biblioteca un libro sulla storia delle taverne nelle colonie atlantiche, il mio telefono adeguatamente silenziato ha ricevuto una chiamata. Sono uscito e ho richiamato. Era il Camp di Mateja, dal quale mi cercavano per informarmi di una ferita della sportiva, caduta mentre giocava a basket. So bene cosa significhi cadere quando si gioca a basket, mi è successo tante volte. Ecco il responso: nello scivolare a terra, la giovinetta si è ferita al gomito, un po' di sangue, ma niente dolore, nessuna botta in testa o al collo. Medicata all'infermeria del Camp, non ha pianto e si è riunita prontamente ai compagni. Probabilmente con particolare entusiasmo, visto che era ora di pranzo. Ho vacillato sulla mia competenza linguistica: non mi pareva una notizia così importante da interrompere una lettura sulla storia delle taverne nelle colonie atlantiche. Allora ho chiesto se la dovevo andare a prendere. No, no pain, nessun dolore mi è stato ripetuto citando forse Battisti.
Dunque alle 3:45 pm sono arrivato puntuale alla raccolta Drive-In e la ferita era questa:
Ora, si potrebbe ironizzare... ma questo post ha tutt'altra motivazione. Chi ha medicato Mateja le ha spiegato quello che stava facendo usando Google Translate per dirle che le avrebbe messo un cerotto e per chiederle se sentiva dolore alla testa. Quindi dal Drive-In alle ferite, passando per gli sforzi di imparare parole in italiano fatti dalle maestre (così le chiama Matj e così le chiamo io) e anche dai suoi compagni, bene, tutto questo è una bella prova di attenzione come pure di accoglienza.
E allora, thank you, Berkeley.
Aggiungo in coda la prova di buona salute: la ferita non impedisce di combattere gli orsi.